Greenwashing: il verde dei furbetti

Greenwashing

E’ il green tarocco. Sembra un’innocua esagerazione pubblicitaria, ma danneggia la reputazione di chi lo pratica e anche la fiducia nel mercato. Sciocco e pericoloso.

1. C’è una novità, purtroppo.
Si sta diffondendo una parola nuova: Greenwashing.

Il greenwashing è il figlio degenere di un buon padre, il marketing verde, discendente a sua volta dalla coscienza ecologica, la nobile causa che sta conquistando praticamente tutti, almeno a parole. Sono molte le aziende che hanno deciso di saltare sul carro del green marketing, che però prevede una politica trasversale di Corporate Social Responsibility, impegnativa e dai tempi lunghi. I furbetti pensano invece che si possa cavalcare il fenomeno a buon mercato, puntando solo ad abbellire la propria immagine sventolando la bandiera verde.

E così è nato il greenwashing, la sostenibilità di facciata, qualche spruzzata di verde qua e là e via.

Si fa greenwashing quando un’azienda, organizzazione, fiera, partito politico, evento aziendale o pubblico, sostengono di “essere verdi”  attraverso la pubblicità e/o qualche azione isolata, e impegnano più risorse in questa affermazione che nelle  pratiche per minimizzare davvero l’impatto ambientale. Chi non conoscecasi del genere?

Anche chi frequenta gli eventi e ha pratica di organizzazione sa benissimo quanto sia trendy oggi tinteggiare di verde: un depliant su carta riciclata, una borsa di iuta come gadget, il catering a km zero (e l’ananas?), non stampate questa mail per carità, pianteremo xxx alberi nel Mato Grosso… et voila, siamo diventati ecosostenibili!!

Pennello

2. No, non è una semplice sciocchezza
A prima vista il greenwashing è solo una sciocchezza alla moda, che fa affermazioni a vanvera, alla fine né buone né cattive per l’ambiente, nella pia speranza di vendere più roba o di fare bella figura..

In realtà il greenwashing è un male per l’ambiente perché può indurre i consumatori in buona fede ad adottare comportamenti o acquistare prodotti che contengono aspetti veramente contrari alla causa ambientale mascherati da un po’ di verdolino.

E per di più il greenwashing può nuocere gravemente alla credibilità delle aziende e dei prodotti perché se da una parte i consumatori sono sempre più sensibili alle promesse che toccano l’ambiente, dall’altra diventano molto severi verso chi approfitta di questa disponibilità e sul web si stanno sviluppando forme dicontrasto e di denuncia veramente efficaci e molto punitive nei confronti dei furbetti.

E infine il greenwashing può indurre sfiducia verso le politiche verdi in generale, anche di aziende che le adottano seriamente e responsabilmente. Questo forse è il danno maggiore, verso la causa ambientale e verso il mercato.

Dunque nei tempi medi e lunghi il greenwashing si rivela una pessima idea anche per aziende e brand.

Un hotel, ad esempio, può convincerci del proprio impegno ambientale proponendoci di non lavareasciugamani e lenzuola ogni giorno, ma se allo stesso tempo non ha curato l’efficienza energeticanell’illuminazione, nel riscaldamento e raffreddamento, il cliente se ne accorge facilmente e l’albergo rivela una filosofia verde che punta solo alla sua convenienza. Il rischio di ottenere un risultato di immagine negativo ed essere visti come generatori di “greenwashing” è dietro l’angolo.

Ma tant’è… ci provano in molti, e anche nomi grossi!

Green

3. Una bugia dalle molte facce
Negli Stati Uniti dove il termine greenwashing è ormai parola comune, esistono addirittura classifiche delle aziende più ingannevoli sui temi ambientali (vedi www.greenwashingindex.com). Grandi marche come Coca Cola, Nestlè, American Electric Power, General Electric, Dupont, Shell, Ford, General Motors, sono solo alcune tra quelle che non hanno resistito al richiamo di azioni “green” facili e che sono state punite dai consumatori perché in qualche modo non hanno convinto.

Le pratiche più comuni che portano all’accusa di greenwashing sono:
evidenziare una singola caratteristica per classificare come “green” un prodotto/servizio, ignorando completamente altri aspetti più importanti;
occultare specifiche informazioni di cui l’Azienda è in possesso come dati statistici, ricerche, studi, etc, o rendendone molto difficile la reperibilità nel sito web aziendale;
comunicare caratteristiche green irrilevanti e/o non presenti nei disciplinari e nelle linee guida delle certificazioni ufficiali;
investire in compensazione di CO2 per conferire al brand quella sostenibilità che di per sé non ha;
inserire eco label false o di fantasia su annunci o confezioni;
vantarsi di finanziare progetti socio-ambientali di nessuna importanza;
utilizzare frequentemente termini come eco-friendly, sostenibilità, low impact, green, clean, etc senza una reale corrispondenza nella filosofia aziendale e nelle pratiche produttive.

Sedie Verdi

4. Norme anti greenwashing
Per contrastare il fenomeno del greenwashing, in molti Paesi sono state adottate norme e prassi ad hoc. Ecco alcuni esempi, ma la lista è più lunga e si allunga ogni giorno.
Molte associazioni di categoria e gruppi di industrie, soprattutto in Europa, stanno prendendo seri provvedimenti contro le false dichiarazioni ambientali.
In USA la Commissione Federale del Commercio (FTC) ha fornito severe linee guida contro i posizionamenti ambientali falsi e ingannevoli in pubblicità.
In Australia sono state varate sanzioni fino a 1,1 milioni di dollari per punire le aziende che comunicano comportamenti ambientali non corrispondenti a verità.
Il governo norvegese ha vietato all’industria automobilistica forme di pubblicità comparativa sui temi ambientali.
Il Regno Unito ha chiesto al Consorzio dell’Olio di Palma Malese di ritirare l’annuncio apparso sulla BBC e giudicato ingannevole che definiva il prodotto “un regalo dalla natura, un regalo per la vita, che aiuta il pianeta a respirare e genera sostenibilità”.
In Francia, l’Agenzia di protezione dei consumatori ha stabilito che le automobili nelle pubblicità devono apparire in normali strade aperte al traffico dove sono usate abitualmente e non in luoghi “green”.
E in Italia?
Nel nostro Paese il greenwashing va a gonfie vele anche perché sul fronte legislativo non si vede ancora nessuna posizione chiara, a parte i casi talmente gravi da sconfinare nella truffa vera e propria. In più, si prestano a fare da sponda (involontaria?) ad azioni di greenwashing perfino Associazioni Ambientaliste, Enti Pubblici, trasmissioni televisive e media in generale. Tuttavia qualcosa si sta muovendo nella direzione giusta per merito dei molti siti ambientalisti (digitare su Google: greenwashing italia).

5. Il greenwashing è virale.
Insomma, anche se sembra solo una furbata o una leggerezza, il greenwashing fa un danno notevole: inganna i consumatori che vorrebbero scegliere prodotti concepiti con logiche sane, induce confusione negli acquisti e genera sfiducia anche verso quei produttori che, invece, stanno facendo un effettivo ripensamento del modo di produrre.

Il problema riguarda tutte le aziende e i settori produttivi, perché anche se la nostra azienda non è stata indicata tra quelle che praticano il greenwashing, il sospetto e la sfiducia dilagheranno nel mercato e ai consumatori sarà reso più difficile capire come orientarsi verso prodotti e servizi veramente green.
Il greenwashing va combattuto perché è un freno allo sviluppo dell’economia sostenibile, cioè l’economia del futuro.